“…queste misere non aveano altra luce né aria fuorchè da altissime aperture, sino alle quali non potevano elevarsi.
Vi erano tante celle quanti pagliericci la capacità del suolo poteva contenere; le divideva uno stretto andito, e quest’unico luogo, ove prendessero qualche esercizio, veniva in più parti attraversato da grosse chiavi di ferro atte a sostenere i muri, impicciando assai il camminare. Nel corso di un anno e mezzo vi furono due braccia rotte e un piede slogato per cadute su quelle sbarre di ferro.
Le detenute… erano appena vestite, parecchie non avevano
cenci bastanti a coprirsi, e niuna vergogna mostravano della loro nudità
… Le si gettarono vicino gridando insieme, e le destarono compassione
ed orrore…”
(Silvio Pellico, op. cit., pp. 8-9)
“Esisteva in Torino una terza prigione muliebre per quelle
il cui delitto era la sola mala condotta: la Marchesa fu pure chiamata
colà. Vi andò due volte sole. Ivi le detenute ricevevano
soccorsi di religione amministrati con carità … Quella prigione
era composta di due celle tonde assai oscure; la mancanza di luce interdiceva
le occupazioni, e non potea quindi introdursi né scuola di lettura
né lavoro …”
(Ivi, p. 28)
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